mercoledì 30 marzo 2011

“Leggere, vizio punito” (Gesualdo Bufalino)

“Leggere, vizio punito” è il titolo di un articolo contenuto in “Cere perse”, raccolta di articoli di Gesualdo Bufalino, usciti fra il 1982 e il 1985. È un libro che vorrei avere al più presto (così come tutto ciò che non ho ancora letto dello scrittore di Comiso) e che l’autore stesso considera una sorta di diario non solo personale, ma anche generazionale.

 Quest’articolo, in particolare, è incentrato sulla lettura e la scrittura
Nell’attesa di poterlo leggere integralmente, ne cito una piccola parte. L’ho trovata su un saggio che stavo studiando e ho deciso di postarla per non perderla di vista e condividerla con quanti si trovino a passare da queste parti.

È una definizione della lettura molto appassionata, direi quasi viscerale, se consideriamo anche le immagini che Bufalino usa, tutte riconducibili a un piano fisico. La trovo molto vicina a ciò che la lettura per me è stata sin dall’infanzia e continua ad essere tutt’ora:

“Leggere a me non servì soltanto da risorsa conoscitiva, utile a esplorare il fondo del mio pozzo buio, il più che potessi del lontanissimo cielo: significò soprattutto mangiare, saziare una mia fame degli altri e delle loro vite veridiche o immaginarie: dunque fu in qualche modo una pratica cannibalesca. Come il comunicando, quaerens quem devoret, cerca e mangia nell’ostia il suo dio, io mangiavo nei libri il mondo, la vita, gli uomini, la visione e la storia; mangiavo, autofagicamente, me stesso.” 

(Leggere, vizio punito in “Cere perse”)

giovedì 24 marzo 2011

Shirley Jackson - La lotteria

Qualche settimana fa navigavo su ibs, alla ricerca di ispirazione per libri da acquistare. Così mi è capitato di scoprire un'autrice americana di cui non avevo mai sentito parlare: Shirley Jackson, definita maestra del terrore e considerata un modello imprescindibile da Stephen King.
Ho appuntato il nome e ho continuato le mie ricerche su internet, imbattendomi sul sito Adelphiana. Qui ho trovato in versione pdf il suo racconto più famoso, "La Lotteria", che è stato pubblicato nella collana Piccola biblioteca Adelphi, in un volumetto di un'ottantina di pagine, insieme ad altri tre racconti dell'autrice.

"La lotteria" è stato pubblicato sul New Yorker nel 1948, scatenando un'ondata di lettere polemiche e scandalizzate alla redazione del giornale. Oggi dubito che avrebbe fatto lo stesso effetto. Siamo ormai abituati a tutto e la realtà supera spesso la fantasia. C'è da dire che resta addosso qualcosa di inquietante dopo la lettura di questo racconto. Probabilmente perché ci si interroga sul significato dell'atto atroce che viene svelato solo nel finale. Si cercano simbologie, indizi nel testo che possano farlo interpretare come un'allegoria. Non resta che affidarsi alle parole dell'autrice, apparse un mese dopo la pubblicazione del racconto sul San francisco Chronicle, in risposta ai lettori:

"Explaining just what I had hoped the story to say is very difficult. I suppose, I hoped, by setting a particularly brutal ancient rite in the present and in my own village to shock the story's readers with a graphic dramatization of the pointless violence and general inhumanity in their own lives."

Volontà di scioccare, facendo emergere l'orrore dalla quotidianità, quindi. Direi che la Jackson c'è riuscita magistralmente.
L'incipit è straniante per un lettore che si aspetta un classico racconto del terrore, popolato da esseri spaventosi e permeato da un'ambientazione cupa. Ci ritroviamo, infatti, in un piccolo centro rurale della provincia americana, è un assolato 27 Giugno e i bambini giocano insieme perché le scuole sono chiuse. La piazza del paese si anima in occasione della lotteria annuale, non una sola persona è rimasta a casa. Sembra tutto normale, un evento di paese come tanti altri, raccontato con uno stile asciutto e realistico. Proseguendo nella lettura si scopre che le cose non stanno proprio così, c'è qualcosa che non va e si nota anche dal nervosismo degli astanti. Nelle pagine finali, dopo tanta suspance, ecco finalmente la "svolta che porta dritto in un vicolo buio", per dirla con Stephen King.


martedì 22 marzo 2011

I ragazzi stanno bene di Lisa Cholodenko

 
"I ragazzi stanno bene" è l'ultimo film di Lisa Cholodenko, uscito nelle sale l'11 marzo.

Se in Laurel Canyon la regista aveva raccontato una famiglia implosa e rapporti di coppia e tra madre e figlio a dir poco complicati, in questa commedia la Cholodenko mette in scena una classica famiglia americana, contrassegnata da un'unica particolarità: è una "famiglia arcobaleno".

  Nic (Annette Bening) e Jules (Julianne Moore) sono infatti una coppia lesbica di mezza età, regolarmente sposata e con due figli adolescenti: Joni (Mia Wasikowska, l'Alice di Tim Burton) e Laser (Josh Hutcherson), avuti grazie all'inseminazione artificiale. Gli equilibri di questo sereno nucleo familiare cominciano a vacillare quando Joni e Laser decidono di mettersi in contatto con il padre, o meglio il donatore di sperma. Si tratta di Paul (Mark Ruffalo), uno scapolo che gestisce un ristorante biologico. Paul è attratto da Jules, ma soprattutto da quel caldo clima familiare che Nic e Jules sono riuscite a creare per i loro figli.

Naturalmente, non è tutto rose e fiori, perché "il matrimonio è difficile", come dirà Jules nella scena emotivamente più tesa, verso il finale. Ma gli alti e bassi nel rapporto di coppia e nel rapporto con i figli sono gli stessi che si ritrovano nelle famiglie etero. Il fatto che qui la protagonista è una "famiglia arcobaleno" non rende le cose diverse. Ed è proprio questo il bello del film. Spesso, infatti, il tema dell'omosessualità viene usato o in chiave tragica o come contrappunto comico-farsesco. Qui la chiave di lettura è la normalità e l'outsider è etero: il dongiovanni impenitente, che scopre una vocazione per la paternità.
Questa della Cholodenko è una commedia che diverte e commuove, anche grazie all'ottimo cast, senza voler fare propaganda. Non dimostra, ma semplicemente mostra, spingendo alla riflessione. Consigliato.


lunedì 21 marzo 2011

Dolls di Takeshi Kitano



Vorrei segnalare un bellissimo articolo di Viola di Grado, pubblicato sulla rivista letteraria Nazione Indiana.
Il film viene analizzato come vero e proprio manifesto dell'estetica giapponese, con riferimenti che vanno dal  tradizionale teatro delle marionette (bunraku) ad aspetti religiosi (buddhismo, sciamanesimo) e filosofici, come l' accezione positiva di vuoto nella cultura giapponese e il concetto di mono no aware (letteralmente "il sentimento delle cose", un'espressione molto vicina a "lacrimae rerum": la malinconia che ci pervade quando prendiamo consapevolezza della precarietà di tutte le cose, che allo stesso tempo però ne accentua bellezza e valore). 

Un bel distillato di cultura giapponese, nella speranza che questo popolo possa riprendersi presto e nel migliore dei modi dall'immane catastrofe che l'ha colpito.

domenica 20 marzo 2011

"La campana di vetro" di Sylvia Plath e " Il pianeta Trifallon in relazione alla Cosa Brutta" di David Foster Wallace

Ieri ho finito di leggere "La campana di vetro", ovvero l'unico romanzo, di Sylvia Plath, uscito nel 1963. E' un romanzo fortemente autobiografico, infatti, intervistata dalla BBC, l'autrice esprimeva il bisogno di "dare sfogo alla piccola terribile allegoria ancora una volta prima di potersene liberare". Appena un mese dopo, l'11 febbraio, poco prima dell'alba, infilò la testa nel forno a gas e si addormentò per sempre. Aveva solo 31 anni.

Esther, alter ego dell'autrice, è una brillante 19enne di provincia. Dopo aver vinto un premio al college, si ritrova a New York per fare pratica presso la redazione di una rivista di moda (con tutto ciò che comporta: lavoro, feste mondane, incontri, acquisti, cene gratis). 
In teoria un'esperienza simile avrebbe dovuto esaltarla, ma la realtà è ben diversa: "Sì, credo che avrei dovuto trovarla un'esperienza eccitante,come facevano quasi tutte le mie compagne, ma non riuscivo a provare niente. Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l'occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente." 

Proprio lei, sempre eccellente, ormai abituata ad avere sempre il massimo dei voti, comincia a provare sempre meno entusiasmo, a perdersi: "Dopo avere inseguito per diciannove anni bei voti, premi e borse di studio di ogni sorta, stavo perdendo il ritmo, rallentavo, mi stavo lasciando eliminare dalla gara." 

Qualcosa comincia a rompersi dentro di lei e, una pagina dopo l'altra, si percepisce sempre più tangibilmente un angoscioso senso di inadeguatezza: "...mi sentii un'incapace totale. E il guaio era che lo ero sempre stata, solo che non mi ero mai fermata a pensarci. L'unica cosa che sapevo fare bene era vincere borse di studio e premi, ed anche quell'epoca stava per finire. Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi, o come un campione di calcio dell'università che si trova tutt'a un tratto di fronte Wall Street e al doppiopetto grigio, i suoi giorni di gloria ridotti alle dimensioni di una piccola coppa d'oro sulla mensola, con su incisa una data, come una lapide di cimitero."  

Svalutazione di sé, ma anche una profonda incertezza verso il futuro, paura di scegliere, avendo la consapevolezza che ogni scelta è cruciale e irreversibile. L'una esclude l'altra. In particolare a scontrarsi sono il sogno di una vita - affermarsi come scrittrice- e i dettami della società, che la voleva moglie e madre ideale, angelo del focolare. L'autrice riesce a descrivere molto bene questo senso di smarrimento e la paralisi che ne deriva:

"Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto.
Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso.Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l'Europa e l'Africa e il Sudamerica, un altro fico era Costantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n'erano molti altri che non riuscivo a distinguere.
E vidi me stessa seduta alla biforcazione dell'albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finchè uno dopo l'altro si spiaccicarono a terra ai miei piedi."



Alla vigilia del suo ritorno a casa Esther compie un rituale simbolico: lancia dalla finestra della sua camera d'albergo tutti i vestiti aquistati durante il suo soggiorno a New York.

Ritornata a Boston, Esther scivola lentamente nell'abisso. Non riesce più dormire, a leggere e - orrore- a scrivere: "Vedevo i giorni dell'anno come una lunga fila di scatole bianche luminose, separate l'una dall'altra dall'ombra nera del sonno. Solo che per me la lunga prospettiva di ombre che distinguevano una scatola dalla successiva si era improvvisamente spezzata, e la serie interminabile dei giorni mi si apriva davanti abbagliante come un grande viale bianco di desolazione infinita."

Cominciano le ideazioni suicide e compare il personaggio dell'odioso Dr Gordon, che conosce una sola cura per Esther: l'elettroshock. Un'esperienza atroce che la Plath rievocherà anche nella poesia "L'impiccato", allegata nell'edizione mondadori, insieme ad altre poesie tratte dalla raccolta Ariel. Eccola:


Per le radici dei capelli mi afferrò un qualche dio.
Sfrigolai nei suoi volt azzurrini come un profeta nel deserto. Le notti sparirono di scatto come palpebra di lucertola:
Un mondo di giorni bianchi e nudi in un' orbita senz' ombra.
Una noia d’avvoltoio mi affissò in questo tronco.
se lui fosse me, farebbe ciò che feci.

 Il capitolo XIII segna il punto di non ritorno. Dopo un pellegrinaggio alla tomba del padre, Esther torna a casa, prepara un biglietto con su scritto: "Vado a fare una lunga passeggiata" e ingerisce una grossa quantità di sonniferi, rintanata nello scantinato. Esther sopravvive, ma a quale prezzo...
Rimbalza da un ospedale all'altro, fino al traferimento definitivo in una clinica privata, grazie al sostegno economico di una scrittrice affermata che aveva letto la sua storia sui giornali. Non c'è ombra di speranza: "lo sapevo che dovevo essere grata a Philomena Guinea, ma non riuscivo a provare un bel niente [...] dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica." E' la prima volta che compare nel testo la metafora che dà il titolo al romanzo.

I mesi trascorsi in questa clinica privata dall'aspetto di un country club, tra pazienti con cicatrici di passate lobotomie e compagne di reparto che non ce la faranno, è un purgatorio che Esther deve attraversare prima di poter tornare al punto in cui si era "così violentemente inerrotta". La seguiamo lungo lo squallido corridoio sotterraneo che la conduce ancora una volta verso la sala adibita all'elettroshock, nella sua camera, nel salotto dove si intrattiene con le altre pazienti, fino alla soglia che la ripoterà, pur piena di incertezze e carica del suo bagaglio di dolore, alla vita.


 Anche volendo mettere tra parentesi il contenuto di questo romanzo, l'ossessione per la morte della Plath poetessa emerge anche qui attraverso l'uso del linguaggio. Metafore e similitudini si riallacciano spesso a questo campo semantico: "Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo."; oppure "il sudario grigio delle nuvole" nelle pagine finali. Sono solo due esempi, ma metafore come queste sono disseminate in tutto il romanzo. Anche per questo, oltre che per lo stretto legame con la biografia dell'autrice, non se ne può dare una lettura prettamente sociale (come a volte è stato fatto).  

Il clima mefitico dell'America maccartista di quegli anni, pieno di ipocrisie, perbenismi e tabù sicuramente opprime e schiaccia, ma non è questo il significato profondo della metafora "campana di vetro". Lo sapeva bene David Foster Wallace, anche lui suicida, che nel  suo racconto autobiografico "Il pianeta Trifallon in relazione alla Cosa Brutta"cita questa metafora della Plath per dare un'idea di cosa sia la "cosa brutta", ovvero la depressione: "Una poetessa davvero meravigliosa di nome Sylvia Plath, che purtroppo non è più in vita, diceva che è come stare sotto una campana di vetro a cui hanno risucchiato tutta l'aria, e tu non puoi respirare nemmeno un briciolo d'aria fresca (e immaginate il momento in cui i vostri movimenti sono invisibilmente impediti dal vetro e voi capite di essere sotto vetro...).
Più avanti invece descriverà come lui percepisce la "cosa brutta": una nausea che pervade ogni singolo atomo della persona che ne è afflitta, fino a prendersi l'identità stessa di quella persona.

" E' così che funziona la Cosa Brutta: è particolarmente brava ad aggredire i vostri meccanismi difensivi. Il modo per combattere o sfuggire la Cosa Brutta sta chiaramente nel pensare in modo diverso, nel ragionare e discutere con voi stessi, giusto per cambiare il vostro modo di percepire, sentire, elaborare le cose. Ma si serve la mente per farlo, vi servono le cellule cerebrali e i loro bravi atomi, le facoltà mentali e compagnia bella, vi serve il vostro io, ed è proprio quello che la Cosa Brutta ha fatto ammalare troppo perché funzioni a dovere. Ha fatto ammalare proprio quello. Vi ha fatto ammalare in modo da non permettervi di guarire. E voi cominciate a pensare a questa situazione veramente atroce e vi dite: – Mannaggia, coma cavolo è riuscita la Cosa Brutta a fare questo? – Ci pensate su, ci pensate davvero bene perché è nel vostro interesse, e poi tutt'a un tratto avete come un'intuizione...la Cosa Brutta riesce a farvi questo perché voi siete la Cosa Brutta! La Cosa Brutta siete voi. Nient'altro: nessuna infezione batteriologica né colpi di spranga o di martello in testa quando eravate piccoli, né scuse d'altro genere; voi siete la malattia. La malattia vi «definisce», specie dopo che è passato qualche tempo. Ed è allora, mi sa, che se avete lo scilinguagnolo vi rendete conto che l'acqua non ha superficie, oppure sbattete il muso contro il vetro della campana rendendovi conto di essere in trappola, oppure guardate il buco nero e vedete che ha la vostra faccia. E' in quel preciso istante che la Cosa Brutta vi divora, o meglio, che voi divorate voi stessi. Che vi uccidete. Facciamo tante storie quando chi ha una «grave depressione» si suicida; diciamo: – Per la miseria, dobbiamo fare qualcosa per impedire che si suicidino! – Errore. Perché, vedete, tutte quelle persone a quel punto si sono già uccise, nel senso che conta per davvero. Quando scolano interi armadietti di medicine, schiacciano un pisolino in garage o che so io, si sono già uccisi da un pezzo. Quando «si suicidano» si dimostrano semplicemente coerenti."

venerdì 11 marzo 2011

Elena kalis: Underwater Photography

Elena Kalis è una fotografa di origini russe, residente da 10 anni in una piccola isola delle Bahamas, insieme al marito e ai figli. Questo ha contribuito a farla specializzare in scatti subacquei che ricreano un mondo onirico e fiabesco in cui è bello perdersi. 
C'è il set, particolarmente congeniale alla sua vena visionaria, dedicato ai libri "Alice nel paese delle meraviglie" e "Attraverso lo specchio" (al quale prendono parte i due figli della Kalis), quello dedicato al mondo del circo, quelli dove prevalgono le ballerine classiche, altri incentrati sullo studio dei giochi di luci e colori che si formano nell'acqua, altri, coloratissimi, dedicati ai bambini e ai loro giochi...

Le foto sono tutte una più suggestiva dell'altra. Ne inserisco qualcuna, ma consiglio caldamente a chi si trova a passare da qui la visita al suo sito ufficiale http://underwatersite.com/

mercoledì 9 marzo 2011

La speranza di pure rivederti


di Eugenio Montale      
da Occasioni 
sezione Mottetti

La speranza di pure rivederti
m’abbandonava; 

e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini, 
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile, 
un tuo barbaglio:
  
(a Modena, tra i portici, 
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).

Montale ha commentato questa poesia sul "Corriere della sera" del 16 febbraio 1950, celandosi dietro il nome Mirco.

"Un pomeriggio d’estate Mirco si trovava a Modena e passeggiava sotto i portici. Angosciato com’era e sempre assorto nel suo "pensiero dominante", stupiva che la vita gli presentasse come dipinte o riflettesse su uno schermo tante distrazioni. Era un giorno troppo gaio per un uomo non gaio. Ed ecco apparire a Mirco un vecchio in divisa gallonata che trascinava con una catenella due riluttanti cuccioli color sciampagna, due cagniuoli che a una prima occhiata non parevano né lupetti, né bassotti, né volpini. Mirco si avvicinò al vecchio e gli chiese: "Che cani sono questi?" E il vecchio secco e orgoglioso: "Non sono cani, sono sciacalli". (Così pronunciò da buon settentrionale incolto; e scantonò poi con la sua pariglia).
Clizia amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita a vederli! Pensò Mirco. E da quel giorno non lesse il nome di Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli. Strana, persistente idea. Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua decadenza, della sua fine?
Fatti consimili si ripeterono spesso; non apparvero più sciacalli ma altri strani prodotti della boîte à surprise (scatola a sorpresa) della vita: cani barboni, scimmie, civette sul trespolo, menestrelli, ... E sempre sul vivo della piaga scendeva il lenimento di un balsamo. Una sera Mirco si trovò alcuni versi in testa, prese una matita e un biglietto del tranvai (l’unica carta che avesse nel taschino) e scrisse queste righe: "La speranza di pure rivederti – m’abbandonava; – e mi chiesi se questo che mi chiude – ogni senso di te, schermo d’immagini, – ha i segni della morte o dal passato – è in esso, ma distorto e fatto labile, – un tuo barbaglio."
S’arrestò, cancellò il punto fermo e lo sostituì con due punti perché sentiva che occorreva un esempio che fosse anche una conclusione. E terminò così: "(a Modena fra i portici, – un servo gallonato trascinava – due sciacalli al guinzaglio)". Dove la parentesi voleva isolare l’esempio e suggerire un tono di voce diverso, lo stupore di un ricordi intimo e lontano. (...)
Ho toccato un punto (un punto solo) del problema dell’oscurità o dell’apparente oscurità di certa arte d’oggi: quella che nasce da un’estrema concentrazione e da una confidenza forse eccessiva nella materia trattata."

lunedì 21 febbraio 2011

E nel buio sorrido alla vita... (Rosa Luxemburg)

Riporto alcuni brani tratti da una lettera che Rosa Luxemburg scrisse all'amica Sonja Liebknecht a metà dicembre del 1917, dal carcere di Breslavia. Un grande “documento di umanità e poesia”, come la definì Karl Kraus.

 
Breslavia, dicembre 1917

[...] È il mio terzo Natale in gattabuia, ma non fatene una tragedia.
Sono calma e serena come sempre. Ieri sono rimasta a lungo sveglia - adesso non riesco ad addormentarmi prima dell'una, però devo essere a letto già alle dieci -, così, al buio, i miei pensieri vagano come in sogno.
Ieri dunque pensavo: quanto è strano che, senza alcun motivo particolare, io viva sempre in un'ebbrezza gioiosa. Me ne sto qui, ad esempio, in questa cella oscura, sopra un materasso duro come la pietra, intorno a me nell'edificio regna come di regola un silenzio di tomba, sembra di essere rinchiusi in un sepolcro: attraverso la finestra si disegna sul soffitto il riflesso della lanterna accesa l'intera notte davanti al carcere. Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza; oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell'esistenza.
Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell'oscurità, della noia, della prigionia invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito.
E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità.
E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare.
E anche nello stridere della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della guardia risuona un canto di vita piccolo e bello, se solo ci si presta orecchio.
In quei momenti penso a voi, a quanto mi piacerebbe potervi dare la chiave di questo incanto, perché vediate sempre e in ogni situazione quel che nella vita è bello e gioioso, perché anche voi possiate sentire questa ebbrezza e camminare su un prato dai mille colori.
Non intendo in alcun modo saziarvi d'ascetismo, di gioie immaginarie. Vi concedo, anzi, ogni reale piacere dei sensi.
Vorrei soltanto donarvi, in aggiunta, la mia inesauribile letizia interiore, così da poter essere serena riguardo a voi, pensando che attraversate l'esistenza avvolte in un mantello trapunto di stelle, in grado di proteggervi da quanto è meschino, dozzinale e angosciante. [...]

Ahimé, Sonicka, qui ho provato un dolore molto intenso. Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell'esercito, zeppi di sacchi o vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all'esercito.
Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra...
I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com'erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto <<vae victis>>...
Soltanto a Breslavia, di questi animali, dovrebbe esservene un centinaio; avvezzi ai grassi pascoli della Romania, ora ricevono cibo misero e scarso. Vengono sfruttati senza pietà, per trainare tutti i carichi possibili, e assai presto si sfiancano.
Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì chiedendogli se non avesse un po' di compassione per gli animali.
<<Neanche per noi uomini c'è compassione>> rispose quello con un sorriso maligno, e batté ancora più forte... Gli animali infine si mossero e superarono l'ostacolo, ma uno di loro sanguinava...
Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un'espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l'espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta... gli stavo davanti e l'animale mi guardava, mi scesero le lacrime - erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza.
Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui... questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e... le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta.
Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt'uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l'edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia.
E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi... Scrivetemi presto.
Vi abbraccio, Sonica
La vostra R.

Sonjusa, carissima, siate nonostante tutto calma e lieta. Così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi e sorridenti - nonostante tutto.
Buon Natale!

(AA.VV, Un po' di compassione, Adelphi)

domenica 20 febbraio 2011

The Greenwich Trio- Shostakovich Piano Trio no.2 (4th mov)



Il brano che ascolto di più ultimamente è il quarto (e ultimo) movimento del trio nr. 2, opus 67 di Shostakovich. Questo trio è stato scritto nel 1944 ed è dedicato a Ivan Sollertinsky, il migliore amico di Shostakovich, morto prematuramente proprio quell'anno. Ad ispirare il trio non è solo il dolore per la perdita subita, ma anche la guerra che stava insanguinando il mondo.
Oltre a richiamare melodie tipiche del folklore russo, questo movimento finale include infatti anche un tema ebraico, che verrà poi ripreso nel famoso quartetto nr. 8 (in cui, tra l'altro, vengono rievocate le atrocità della guerra e in particolare il bombardamento di Dresda).
Proprio a partire dal '44 anche in Russia cominciarono ad essere diffuse le prime notizie sugli orrori dell'olocausto, ma la consuetudine di Shostakovich con la musica ebraica precede questa data.Trovo molto significativa e penetrante l'interpretazione che ne dà Shostakovich stesso:
"Mi sembra di comprendere cosa caratterizza le melodie ebraiche. Una melodia gioiosa viene costruita su intonazioni tristi".
Questo peculiare connubio di tragedia e bellezza, questa ironia che nasconde e, allo stesso tempo, esprime l'orrore è anche una delle cifre stilistiche di Shostakovich.

domenica 6 febbraio 2011

Corrispondenze: Baudelaire, Pessoa, Dostoevskij


Charles Baudelaire
"Ubriacatevi"
da "Lo spleen di Parigi"

Bisogna essere sempre ubriachi. E’ l’unico problema, non c’è altro. Inebriarsi senza tregua per non sentire l’orrendo peso del Tempo che vi rompe la schiena, che vi inginocchia al suolo.
Ma di che? Di vino, di poesia o di virtù – a piacer vostro. Ma ubriacatevi.
E se a volte – sugli scalini di un palazzo, nell’erba verde di un fosso, nell’incupita solitudine della vostra stanza – vi sarete svegliati, l’ubriacatura già dimezzata o svaporata, chiedetelo al vento, alla stella, all’uccello, all’orologio, all’onda: a tutto che fugge, che piange, che scorre, che canta, che sussurra: chiedete che ora è! e il vento, la stella, l’uccello, l’orologio, l’onda, vi grideranno: “E’ ora di ubriacarsi! Ebbri! per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo: ubriachi! senza tregua! Di vino, di poesia o di virtù – a piacer vostro”.

Fernando Pessoa
da "Il libro dell'inquietudine"
La decadenza è la perdita totale dell’incoscienza; perché l’incoscienza è il fondamento della vita. Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe.

F. M. Dostoevskij
da "Memorie dal sottosuolo"
Vi giuro, signori, che l'essere troppo consapevoli è una malattia, un'autentica assoluta malattia.

[Una di quelle corrispondenze più o meno casuali, più o meno logiche che si formano di tanto in tanto nel mio cervello.]

sabato 5 febbraio 2011

L'arte di perdere


One Art
by Elizabeth Bishop

The art of losing isn’t hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster. 

Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn’t hard to master.

Then practice losing farther, losing faster:
places, and names, and where it was you meant
to travel. None of these will bring disaster. 

I lost my mother’s watch. And look! my last, or
next-to-last, of three loved houses went.
The art of losing isn’t hard to master. 

I lost two cities, lovely ones. And, vaster,
some realms I owned, two rivers, a continent.
I miss them, but it wasn’t a disaster. 

—Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan’t have lied. It’s evident
the art of losing’s not too hard to master
though it may look like (Write it!) like disaster.


Un'arte
(tradotta da Marilena Renda)
L’arte di perdere non è una disciplina dura
tante cose sembrano volersi perdere
che la loro perdita non è una sciagura.

Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta la tortura
delle chiavi di casa perse, delle ore spese male.
L’arte di perdere non è una disciplina dura.

Esercitati a perdere di più, senza paura:
luoghi, e nomi, e destinazioni di viaggio.
Nessuna di queste perdite sarà mai una sciagura.

Ho perso l’orologio di mia madre. Era
mia ed è svanita – ops! – l’ultima di tre case amate.
L’arte di perdere non è una disciplina dura.

Ho perso due vasti regni, due città amate,
due fiumi, un continente. Mi mancano,
ma non è mica un disastro averle perdute.

Nemmeno perdere te (la figura, la voce allegra
il gesto che amo) mi smentirà. È chiaro, ormai:
l’arte di perdere non è una disciplina dura,
benché possa sembrare (scrivilo!) una sciagura.


[ Il tono apparentemente distaccato con cui l'autrice tenta di nascondere il dolore della perdita... Il primo verso, che ricorre come un mantra da ripetere a se stessi per convencersi che sì, l'arte di perdere non è difficile da imparare (come se questo bisogno di ripeterlo non smascheri già una verità interiore ben diversa)... Quel Write it! finale che mette a nudo i veri sentimenti dell'autrice (la tangibilità di quel disastro e il tentativo di esorcizzarlo tramite la scrittura). Non ci sono dubbi: amo questa poesia. ]

venerdì 4 febbraio 2011

Kyoko Yonemoto - Ravel violin sonata 2nd mov

Il post inaugurale di questo blog non poteva che essere dedicato al secondo movimento "blues" della sonata in Sol maggiore per violino e pianoforte di Ravel, uno dei miei brani preferiti. Ho scoperto questa straordinaria sonata grazie alla visione del film "Un coeur en hiver" di Claude Sautet e credo che sia cominciata da qui la mia passione per la musica classica, benché la ascoltassi sporadicamente anche durante la mia adolescenza.

Ravel dedicò ben 4 anni (dal 1923 al 1927) alla stesura di questa sonata in tre movimenti.

A un "Allegretto" iniziale segue il famoso movimento "Blues", in cui Ravel inserisce con maestria armonie e ritmi tipici del jazz americano, facendoli a tratti cozzare in modo sottilmente ironico con moduli melodici più tradizionali.

Parlando di questa sonata, Ravel dichiarò di voler mettere in risalto l'indipendenza tra i due strumenti e la loro sostanziale incompatibilità. Io, dal basso della mia incompetenza, ho avuto l'impressione che questi momenti di contrasto siano alternati con altri in cui gli strumenti, "quasi umanizzati", intrattengono un vero e proprio dialogo.

Un virtuosistico "Perpetuum mobile" è la chiusa folgorante della sonata.



Questa bellissima esecuzione mi colpisce anche per la ben percepibile sintonia che i due interpreti riescono ad instaurare, a dispetto della presunta "incompatibilità" tra i due strumenti.