lunedì 21 febbraio 2011

E nel buio sorrido alla vita... (Rosa Luxemburg)

Riporto alcuni brani tratti da una lettera che Rosa Luxemburg scrisse all'amica Sonja Liebknecht a metà dicembre del 1917, dal carcere di Breslavia. Un grande “documento di umanità e poesia”, come la definì Karl Kraus.

 
Breslavia, dicembre 1917

[...] È il mio terzo Natale in gattabuia, ma non fatene una tragedia.
Sono calma e serena come sempre. Ieri sono rimasta a lungo sveglia - adesso non riesco ad addormentarmi prima dell'una, però devo essere a letto già alle dieci -, così, al buio, i miei pensieri vagano come in sogno.
Ieri dunque pensavo: quanto è strano che, senza alcun motivo particolare, io viva sempre in un'ebbrezza gioiosa. Me ne sto qui, ad esempio, in questa cella oscura, sopra un materasso duro come la pietra, intorno a me nell'edificio regna come di regola un silenzio di tomba, sembra di essere rinchiusi in un sepolcro: attraverso la finestra si disegna sul soffitto il riflesso della lanterna accesa l'intera notte davanti al carcere. Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza; oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell'esistenza.
Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell'oscurità, della noia, della prigionia invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito.
E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità.
E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare.
E anche nello stridere della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della guardia risuona un canto di vita piccolo e bello, se solo ci si presta orecchio.
In quei momenti penso a voi, a quanto mi piacerebbe potervi dare la chiave di questo incanto, perché vediate sempre e in ogni situazione quel che nella vita è bello e gioioso, perché anche voi possiate sentire questa ebbrezza e camminare su un prato dai mille colori.
Non intendo in alcun modo saziarvi d'ascetismo, di gioie immaginarie. Vi concedo, anzi, ogni reale piacere dei sensi.
Vorrei soltanto donarvi, in aggiunta, la mia inesauribile letizia interiore, così da poter essere serena riguardo a voi, pensando che attraversate l'esistenza avvolte in un mantello trapunto di stelle, in grado di proteggervi da quanto è meschino, dozzinale e angosciante. [...]

Ahimé, Sonicka, qui ho provato un dolore molto intenso. Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell'esercito, zeppi di sacchi o vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all'esercito.
Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra...
I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com'erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto <<vae victis>>...
Soltanto a Breslavia, di questi animali, dovrebbe esservene un centinaio; avvezzi ai grassi pascoli della Romania, ora ricevono cibo misero e scarso. Vengono sfruttati senza pietà, per trainare tutti i carichi possibili, e assai presto si sfiancano.
Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì chiedendogli se non avesse un po' di compassione per gli animali.
<<Neanche per noi uomini c'è compassione>> rispose quello con un sorriso maligno, e batté ancora più forte... Gli animali infine si mossero e superarono l'ostacolo, ma uno di loro sanguinava...
Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un'espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l'espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta... gli stavo davanti e l'animale mi guardava, mi scesero le lacrime - erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza.
Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui... questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e... le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta.
Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt'uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l'edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia.
E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi... Scrivetemi presto.
Vi abbraccio, Sonica
La vostra R.

Sonjusa, carissima, siate nonostante tutto calma e lieta. Così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi e sorridenti - nonostante tutto.
Buon Natale!

(AA.VV, Un po' di compassione, Adelphi)

domenica 20 febbraio 2011

The Greenwich Trio- Shostakovich Piano Trio no.2 (4th mov)



Il brano che ascolto di più ultimamente è il quarto (e ultimo) movimento del trio nr. 2, opus 67 di Shostakovich. Questo trio è stato scritto nel 1944 ed è dedicato a Ivan Sollertinsky, il migliore amico di Shostakovich, morto prematuramente proprio quell'anno. Ad ispirare il trio non è solo il dolore per la perdita subita, ma anche la guerra che stava insanguinando il mondo.
Oltre a richiamare melodie tipiche del folklore russo, questo movimento finale include infatti anche un tema ebraico, che verrà poi ripreso nel famoso quartetto nr. 8 (in cui, tra l'altro, vengono rievocate le atrocità della guerra e in particolare il bombardamento di Dresda).
Proprio a partire dal '44 anche in Russia cominciarono ad essere diffuse le prime notizie sugli orrori dell'olocausto, ma la consuetudine di Shostakovich con la musica ebraica precede questa data.Trovo molto significativa e penetrante l'interpretazione che ne dà Shostakovich stesso:
"Mi sembra di comprendere cosa caratterizza le melodie ebraiche. Una melodia gioiosa viene costruita su intonazioni tristi".
Questo peculiare connubio di tragedia e bellezza, questa ironia che nasconde e, allo stesso tempo, esprime l'orrore è anche una delle cifre stilistiche di Shostakovich.

domenica 6 febbraio 2011

Corrispondenze: Baudelaire, Pessoa, Dostoevskij


Charles Baudelaire
"Ubriacatevi"
da "Lo spleen di Parigi"

Bisogna essere sempre ubriachi. E’ l’unico problema, non c’è altro. Inebriarsi senza tregua per non sentire l’orrendo peso del Tempo che vi rompe la schiena, che vi inginocchia al suolo.
Ma di che? Di vino, di poesia o di virtù – a piacer vostro. Ma ubriacatevi.
E se a volte – sugli scalini di un palazzo, nell’erba verde di un fosso, nell’incupita solitudine della vostra stanza – vi sarete svegliati, l’ubriacatura già dimezzata o svaporata, chiedetelo al vento, alla stella, all’uccello, all’orologio, all’onda: a tutto che fugge, che piange, che scorre, che canta, che sussurra: chiedete che ora è! e il vento, la stella, l’uccello, l’orologio, l’onda, vi grideranno: “E’ ora di ubriacarsi! Ebbri! per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo: ubriachi! senza tregua! Di vino, di poesia o di virtù – a piacer vostro”.

Fernando Pessoa
da "Il libro dell'inquietudine"
La decadenza è la perdita totale dell’incoscienza; perché l’incoscienza è il fondamento della vita. Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe.

F. M. Dostoevskij
da "Memorie dal sottosuolo"
Vi giuro, signori, che l'essere troppo consapevoli è una malattia, un'autentica assoluta malattia.

[Una di quelle corrispondenze più o meno casuali, più o meno logiche che si formano di tanto in tanto nel mio cervello.]

sabato 5 febbraio 2011

L'arte di perdere


One Art
by Elizabeth Bishop

The art of losing isn’t hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster. 

Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn’t hard to master.

Then practice losing farther, losing faster:
places, and names, and where it was you meant
to travel. None of these will bring disaster. 

I lost my mother’s watch. And look! my last, or
next-to-last, of three loved houses went.
The art of losing isn’t hard to master. 

I lost two cities, lovely ones. And, vaster,
some realms I owned, two rivers, a continent.
I miss them, but it wasn’t a disaster. 

—Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan’t have lied. It’s evident
the art of losing’s not too hard to master
though it may look like (Write it!) like disaster.


Un'arte
(tradotta da Marilena Renda)
L’arte di perdere non è una disciplina dura
tante cose sembrano volersi perdere
che la loro perdita non è una sciagura.

Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta la tortura
delle chiavi di casa perse, delle ore spese male.
L’arte di perdere non è una disciplina dura.

Esercitati a perdere di più, senza paura:
luoghi, e nomi, e destinazioni di viaggio.
Nessuna di queste perdite sarà mai una sciagura.

Ho perso l’orologio di mia madre. Era
mia ed è svanita – ops! – l’ultima di tre case amate.
L’arte di perdere non è una disciplina dura.

Ho perso due vasti regni, due città amate,
due fiumi, un continente. Mi mancano,
ma non è mica un disastro averle perdute.

Nemmeno perdere te (la figura, la voce allegra
il gesto che amo) mi smentirà. È chiaro, ormai:
l’arte di perdere non è una disciplina dura,
benché possa sembrare (scrivilo!) una sciagura.


[ Il tono apparentemente distaccato con cui l'autrice tenta di nascondere il dolore della perdita... Il primo verso, che ricorre come un mantra da ripetere a se stessi per convencersi che sì, l'arte di perdere non è difficile da imparare (come se questo bisogno di ripeterlo non smascheri già una verità interiore ben diversa)... Quel Write it! finale che mette a nudo i veri sentimenti dell'autrice (la tangibilità di quel disastro e il tentativo di esorcizzarlo tramite la scrittura). Non ci sono dubbi: amo questa poesia. ]

venerdì 4 febbraio 2011

Kyoko Yonemoto - Ravel violin sonata 2nd mov

Il post inaugurale di questo blog non poteva che essere dedicato al secondo movimento "blues" della sonata in Sol maggiore per violino e pianoforte di Ravel, uno dei miei brani preferiti. Ho scoperto questa straordinaria sonata grazie alla visione del film "Un coeur en hiver" di Claude Sautet e credo che sia cominciata da qui la mia passione per la musica classica, benché la ascoltassi sporadicamente anche durante la mia adolescenza.

Ravel dedicò ben 4 anni (dal 1923 al 1927) alla stesura di questa sonata in tre movimenti.

A un "Allegretto" iniziale segue il famoso movimento "Blues", in cui Ravel inserisce con maestria armonie e ritmi tipici del jazz americano, facendoli a tratti cozzare in modo sottilmente ironico con moduli melodici più tradizionali.

Parlando di questa sonata, Ravel dichiarò di voler mettere in risalto l'indipendenza tra i due strumenti e la loro sostanziale incompatibilità. Io, dal basso della mia incompetenza, ho avuto l'impressione che questi momenti di contrasto siano alternati con altri in cui gli strumenti, "quasi umanizzati", intrattengono un vero e proprio dialogo.

Un virtuosistico "Perpetuum mobile" è la chiusa folgorante della sonata.



Questa bellissima esecuzione mi colpisce anche per la ben percepibile sintonia che i due interpreti riescono ad instaurare, a dispetto della presunta "incompatibilità" tra i due strumenti.