domenica 20 marzo 2011

"La campana di vetro" di Sylvia Plath e " Il pianeta Trifallon in relazione alla Cosa Brutta" di David Foster Wallace

Ieri ho finito di leggere "La campana di vetro", ovvero l'unico romanzo, di Sylvia Plath, uscito nel 1963. E' un romanzo fortemente autobiografico, infatti, intervistata dalla BBC, l'autrice esprimeva il bisogno di "dare sfogo alla piccola terribile allegoria ancora una volta prima di potersene liberare". Appena un mese dopo, l'11 febbraio, poco prima dell'alba, infilò la testa nel forno a gas e si addormentò per sempre. Aveva solo 31 anni.

Esther, alter ego dell'autrice, è una brillante 19enne di provincia. Dopo aver vinto un premio al college, si ritrova a New York per fare pratica presso la redazione di una rivista di moda (con tutto ciò che comporta: lavoro, feste mondane, incontri, acquisti, cene gratis). 
In teoria un'esperienza simile avrebbe dovuto esaltarla, ma la realtà è ben diversa: "Sì, credo che avrei dovuto trovarla un'esperienza eccitante,come facevano quasi tutte le mie compagne, ma non riuscivo a provare niente. Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l'occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente." 

Proprio lei, sempre eccellente, ormai abituata ad avere sempre il massimo dei voti, comincia a provare sempre meno entusiasmo, a perdersi: "Dopo avere inseguito per diciannove anni bei voti, premi e borse di studio di ogni sorta, stavo perdendo il ritmo, rallentavo, mi stavo lasciando eliminare dalla gara." 

Qualcosa comincia a rompersi dentro di lei e, una pagina dopo l'altra, si percepisce sempre più tangibilmente un angoscioso senso di inadeguatezza: "...mi sentii un'incapace totale. E il guaio era che lo ero sempre stata, solo che non mi ero mai fermata a pensarci. L'unica cosa che sapevo fare bene era vincere borse di studio e premi, ed anche quell'epoca stava per finire. Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi, o come un campione di calcio dell'università che si trova tutt'a un tratto di fronte Wall Street e al doppiopetto grigio, i suoi giorni di gloria ridotti alle dimensioni di una piccola coppa d'oro sulla mensola, con su incisa una data, come una lapide di cimitero."  

Svalutazione di sé, ma anche una profonda incertezza verso il futuro, paura di scegliere, avendo la consapevolezza che ogni scelta è cruciale e irreversibile. L'una esclude l'altra. In particolare a scontrarsi sono il sogno di una vita - affermarsi come scrittrice- e i dettami della società, che la voleva moglie e madre ideale, angelo del focolare. L'autrice riesce a descrivere molto bene questo senso di smarrimento e la paralisi che ne deriva:

"Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto.
Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso.Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l'Europa e l'Africa e il Sudamerica, un altro fico era Costantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n'erano molti altri che non riuscivo a distinguere.
E vidi me stessa seduta alla biforcazione dell'albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finchè uno dopo l'altro si spiaccicarono a terra ai miei piedi."



Alla vigilia del suo ritorno a casa Esther compie un rituale simbolico: lancia dalla finestra della sua camera d'albergo tutti i vestiti aquistati durante il suo soggiorno a New York.

Ritornata a Boston, Esther scivola lentamente nell'abisso. Non riesce più dormire, a leggere e - orrore- a scrivere: "Vedevo i giorni dell'anno come una lunga fila di scatole bianche luminose, separate l'una dall'altra dall'ombra nera del sonno. Solo che per me la lunga prospettiva di ombre che distinguevano una scatola dalla successiva si era improvvisamente spezzata, e la serie interminabile dei giorni mi si apriva davanti abbagliante come un grande viale bianco di desolazione infinita."

Cominciano le ideazioni suicide e compare il personaggio dell'odioso Dr Gordon, che conosce una sola cura per Esther: l'elettroshock. Un'esperienza atroce che la Plath rievocherà anche nella poesia "L'impiccato", allegata nell'edizione mondadori, insieme ad altre poesie tratte dalla raccolta Ariel. Eccola:


Per le radici dei capelli mi afferrò un qualche dio.
Sfrigolai nei suoi volt azzurrini come un profeta nel deserto. Le notti sparirono di scatto come palpebra di lucertola:
Un mondo di giorni bianchi e nudi in un' orbita senz' ombra.
Una noia d’avvoltoio mi affissò in questo tronco.
se lui fosse me, farebbe ciò che feci.

 Il capitolo XIII segna il punto di non ritorno. Dopo un pellegrinaggio alla tomba del padre, Esther torna a casa, prepara un biglietto con su scritto: "Vado a fare una lunga passeggiata" e ingerisce una grossa quantità di sonniferi, rintanata nello scantinato. Esther sopravvive, ma a quale prezzo...
Rimbalza da un ospedale all'altro, fino al traferimento definitivo in una clinica privata, grazie al sostegno economico di una scrittrice affermata che aveva letto la sua storia sui giornali. Non c'è ombra di speranza: "lo sapevo che dovevo essere grata a Philomena Guinea, ma non riuscivo a provare un bel niente [...] dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica." E' la prima volta che compare nel testo la metafora che dà il titolo al romanzo.

I mesi trascorsi in questa clinica privata dall'aspetto di un country club, tra pazienti con cicatrici di passate lobotomie e compagne di reparto che non ce la faranno, è un purgatorio che Esther deve attraversare prima di poter tornare al punto in cui si era "così violentemente inerrotta". La seguiamo lungo lo squallido corridoio sotterraneo che la conduce ancora una volta verso la sala adibita all'elettroshock, nella sua camera, nel salotto dove si intrattiene con le altre pazienti, fino alla soglia che la ripoterà, pur piena di incertezze e carica del suo bagaglio di dolore, alla vita.


 Anche volendo mettere tra parentesi il contenuto di questo romanzo, l'ossessione per la morte della Plath poetessa emerge anche qui attraverso l'uso del linguaggio. Metafore e similitudini si riallacciano spesso a questo campo semantico: "Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo."; oppure "il sudario grigio delle nuvole" nelle pagine finali. Sono solo due esempi, ma metafore come queste sono disseminate in tutto il romanzo. Anche per questo, oltre che per lo stretto legame con la biografia dell'autrice, non se ne può dare una lettura prettamente sociale (come a volte è stato fatto).  

Il clima mefitico dell'America maccartista di quegli anni, pieno di ipocrisie, perbenismi e tabù sicuramente opprime e schiaccia, ma non è questo il significato profondo della metafora "campana di vetro". Lo sapeva bene David Foster Wallace, anche lui suicida, che nel  suo racconto autobiografico "Il pianeta Trifallon in relazione alla Cosa Brutta"cita questa metafora della Plath per dare un'idea di cosa sia la "cosa brutta", ovvero la depressione: "Una poetessa davvero meravigliosa di nome Sylvia Plath, che purtroppo non è più in vita, diceva che è come stare sotto una campana di vetro a cui hanno risucchiato tutta l'aria, e tu non puoi respirare nemmeno un briciolo d'aria fresca (e immaginate il momento in cui i vostri movimenti sono invisibilmente impediti dal vetro e voi capite di essere sotto vetro...).
Più avanti invece descriverà come lui percepisce la "cosa brutta": una nausea che pervade ogni singolo atomo della persona che ne è afflitta, fino a prendersi l'identità stessa di quella persona.

" E' così che funziona la Cosa Brutta: è particolarmente brava ad aggredire i vostri meccanismi difensivi. Il modo per combattere o sfuggire la Cosa Brutta sta chiaramente nel pensare in modo diverso, nel ragionare e discutere con voi stessi, giusto per cambiare il vostro modo di percepire, sentire, elaborare le cose. Ma si serve la mente per farlo, vi servono le cellule cerebrali e i loro bravi atomi, le facoltà mentali e compagnia bella, vi serve il vostro io, ed è proprio quello che la Cosa Brutta ha fatto ammalare troppo perché funzioni a dovere. Ha fatto ammalare proprio quello. Vi ha fatto ammalare in modo da non permettervi di guarire. E voi cominciate a pensare a questa situazione veramente atroce e vi dite: – Mannaggia, coma cavolo è riuscita la Cosa Brutta a fare questo? – Ci pensate su, ci pensate davvero bene perché è nel vostro interesse, e poi tutt'a un tratto avete come un'intuizione...la Cosa Brutta riesce a farvi questo perché voi siete la Cosa Brutta! La Cosa Brutta siete voi. Nient'altro: nessuna infezione batteriologica né colpi di spranga o di martello in testa quando eravate piccoli, né scuse d'altro genere; voi siete la malattia. La malattia vi «definisce», specie dopo che è passato qualche tempo. Ed è allora, mi sa, che se avete lo scilinguagnolo vi rendete conto che l'acqua non ha superficie, oppure sbattete il muso contro il vetro della campana rendendovi conto di essere in trappola, oppure guardate il buco nero e vedete che ha la vostra faccia. E' in quel preciso istante che la Cosa Brutta vi divora, o meglio, che voi divorate voi stessi. Che vi uccidete. Facciamo tante storie quando chi ha una «grave depressione» si suicida; diciamo: – Per la miseria, dobbiamo fare qualcosa per impedire che si suicidino! – Errore. Perché, vedete, tutte quelle persone a quel punto si sono già uccise, nel senso che conta per davvero. Quando scolano interi armadietti di medicine, schiacciano un pisolino in garage o che so io, si sono già uccisi da un pezzo. Quando «si suicidano» si dimostrano semplicemente coerenti."

2 commenti:

Sunshine ha detto...

ADORO SYLVIA PLATH, LA MIA SCRITTRICE PREFERITA IN ASSOLUTO..

Unknown ha detto...

Bellissimo articolo.

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