mercoledì 30 marzo 2011

“Leggere, vizio punito” (Gesualdo Bufalino)

“Leggere, vizio punito” è il titolo di un articolo contenuto in “Cere perse”, raccolta di articoli di Gesualdo Bufalino, usciti fra il 1982 e il 1985. È un libro che vorrei avere al più presto (così come tutto ciò che non ho ancora letto dello scrittore di Comiso) e che l’autore stesso considera una sorta di diario non solo personale, ma anche generazionale.

 Quest’articolo, in particolare, è incentrato sulla lettura e la scrittura
Nell’attesa di poterlo leggere integralmente, ne cito una piccola parte. L’ho trovata su un saggio che stavo studiando e ho deciso di postarla per non perderla di vista e condividerla con quanti si trovino a passare da queste parti.

È una definizione della lettura molto appassionata, direi quasi viscerale, se consideriamo anche le immagini che Bufalino usa, tutte riconducibili a un piano fisico. La trovo molto vicina a ciò che la lettura per me è stata sin dall’infanzia e continua ad essere tutt’ora:

“Leggere a me non servì soltanto da risorsa conoscitiva, utile a esplorare il fondo del mio pozzo buio, il più che potessi del lontanissimo cielo: significò soprattutto mangiare, saziare una mia fame degli altri e delle loro vite veridiche o immaginarie: dunque fu in qualche modo una pratica cannibalesca. Come il comunicando, quaerens quem devoret, cerca e mangia nell’ostia il suo dio, io mangiavo nei libri il mondo, la vita, gli uomini, la visione e la storia; mangiavo, autofagicamente, me stesso.” 

(Leggere, vizio punito in “Cere perse”)

giovedì 24 marzo 2011

Shirley Jackson - La lotteria

Qualche settimana fa navigavo su ibs, alla ricerca di ispirazione per libri da acquistare. Così mi è capitato di scoprire un'autrice americana di cui non avevo mai sentito parlare: Shirley Jackson, definita maestra del terrore e considerata un modello imprescindibile da Stephen King.
Ho appuntato il nome e ho continuato le mie ricerche su internet, imbattendomi sul sito Adelphiana. Qui ho trovato in versione pdf il suo racconto più famoso, "La Lotteria", che è stato pubblicato nella collana Piccola biblioteca Adelphi, in un volumetto di un'ottantina di pagine, insieme ad altri tre racconti dell'autrice.

"La lotteria" è stato pubblicato sul New Yorker nel 1948, scatenando un'ondata di lettere polemiche e scandalizzate alla redazione del giornale. Oggi dubito che avrebbe fatto lo stesso effetto. Siamo ormai abituati a tutto e la realtà supera spesso la fantasia. C'è da dire che resta addosso qualcosa di inquietante dopo la lettura di questo racconto. Probabilmente perché ci si interroga sul significato dell'atto atroce che viene svelato solo nel finale. Si cercano simbologie, indizi nel testo che possano farlo interpretare come un'allegoria. Non resta che affidarsi alle parole dell'autrice, apparse un mese dopo la pubblicazione del racconto sul San francisco Chronicle, in risposta ai lettori:

"Explaining just what I had hoped the story to say is very difficult. I suppose, I hoped, by setting a particularly brutal ancient rite in the present and in my own village to shock the story's readers with a graphic dramatization of the pointless violence and general inhumanity in their own lives."

Volontà di scioccare, facendo emergere l'orrore dalla quotidianità, quindi. Direi che la Jackson c'è riuscita magistralmente.
L'incipit è straniante per un lettore che si aspetta un classico racconto del terrore, popolato da esseri spaventosi e permeato da un'ambientazione cupa. Ci ritroviamo, infatti, in un piccolo centro rurale della provincia americana, è un assolato 27 Giugno e i bambini giocano insieme perché le scuole sono chiuse. La piazza del paese si anima in occasione della lotteria annuale, non una sola persona è rimasta a casa. Sembra tutto normale, un evento di paese come tanti altri, raccontato con uno stile asciutto e realistico. Proseguendo nella lettura si scopre che le cose non stanno proprio così, c'è qualcosa che non va e si nota anche dal nervosismo degli astanti. Nelle pagine finali, dopo tanta suspance, ecco finalmente la "svolta che porta dritto in un vicolo buio", per dirla con Stephen King.


martedì 22 marzo 2011

I ragazzi stanno bene di Lisa Cholodenko

 
"I ragazzi stanno bene" è l'ultimo film di Lisa Cholodenko, uscito nelle sale l'11 marzo.

Se in Laurel Canyon la regista aveva raccontato una famiglia implosa e rapporti di coppia e tra madre e figlio a dir poco complicati, in questa commedia la Cholodenko mette in scena una classica famiglia americana, contrassegnata da un'unica particolarità: è una "famiglia arcobaleno".

  Nic (Annette Bening) e Jules (Julianne Moore) sono infatti una coppia lesbica di mezza età, regolarmente sposata e con due figli adolescenti: Joni (Mia Wasikowska, l'Alice di Tim Burton) e Laser (Josh Hutcherson), avuti grazie all'inseminazione artificiale. Gli equilibri di questo sereno nucleo familiare cominciano a vacillare quando Joni e Laser decidono di mettersi in contatto con il padre, o meglio il donatore di sperma. Si tratta di Paul (Mark Ruffalo), uno scapolo che gestisce un ristorante biologico. Paul è attratto da Jules, ma soprattutto da quel caldo clima familiare che Nic e Jules sono riuscite a creare per i loro figli.

Naturalmente, non è tutto rose e fiori, perché "il matrimonio è difficile", come dirà Jules nella scena emotivamente più tesa, verso il finale. Ma gli alti e bassi nel rapporto di coppia e nel rapporto con i figli sono gli stessi che si ritrovano nelle famiglie etero. Il fatto che qui la protagonista è una "famiglia arcobaleno" non rende le cose diverse. Ed è proprio questo il bello del film. Spesso, infatti, il tema dell'omosessualità viene usato o in chiave tragica o come contrappunto comico-farsesco. Qui la chiave di lettura è la normalità e l'outsider è etero: il dongiovanni impenitente, che scopre una vocazione per la paternità.
Questa della Cholodenko è una commedia che diverte e commuove, anche grazie all'ottimo cast, senza voler fare propaganda. Non dimostra, ma semplicemente mostra, spingendo alla riflessione. Consigliato.


lunedì 21 marzo 2011

Dolls di Takeshi Kitano



Vorrei segnalare un bellissimo articolo di Viola di Grado, pubblicato sulla rivista letteraria Nazione Indiana.
Il film viene analizzato come vero e proprio manifesto dell'estetica giapponese, con riferimenti che vanno dal  tradizionale teatro delle marionette (bunraku) ad aspetti religiosi (buddhismo, sciamanesimo) e filosofici, come l' accezione positiva di vuoto nella cultura giapponese e il concetto di mono no aware (letteralmente "il sentimento delle cose", un'espressione molto vicina a "lacrimae rerum": la malinconia che ci pervade quando prendiamo consapevolezza della precarietà di tutte le cose, che allo stesso tempo però ne accentua bellezza e valore). 

Un bel distillato di cultura giapponese, nella speranza che questo popolo possa riprendersi presto e nel migliore dei modi dall'immane catastrofe che l'ha colpito.

domenica 20 marzo 2011

"La campana di vetro" di Sylvia Plath e " Il pianeta Trifallon in relazione alla Cosa Brutta" di David Foster Wallace

Ieri ho finito di leggere "La campana di vetro", ovvero l'unico romanzo, di Sylvia Plath, uscito nel 1963. E' un romanzo fortemente autobiografico, infatti, intervistata dalla BBC, l'autrice esprimeva il bisogno di "dare sfogo alla piccola terribile allegoria ancora una volta prima di potersene liberare". Appena un mese dopo, l'11 febbraio, poco prima dell'alba, infilò la testa nel forno a gas e si addormentò per sempre. Aveva solo 31 anni.

Esther, alter ego dell'autrice, è una brillante 19enne di provincia. Dopo aver vinto un premio al college, si ritrova a New York per fare pratica presso la redazione di una rivista di moda (con tutto ciò che comporta: lavoro, feste mondane, incontri, acquisti, cene gratis). 
In teoria un'esperienza simile avrebbe dovuto esaltarla, ma la realtà è ben diversa: "Sì, credo che avrei dovuto trovarla un'esperienza eccitante,come facevano quasi tutte le mie compagne, ma non riuscivo a provare niente. Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l'occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente." 

Proprio lei, sempre eccellente, ormai abituata ad avere sempre il massimo dei voti, comincia a provare sempre meno entusiasmo, a perdersi: "Dopo avere inseguito per diciannove anni bei voti, premi e borse di studio di ogni sorta, stavo perdendo il ritmo, rallentavo, mi stavo lasciando eliminare dalla gara." 

Qualcosa comincia a rompersi dentro di lei e, una pagina dopo l'altra, si percepisce sempre più tangibilmente un angoscioso senso di inadeguatezza: "...mi sentii un'incapace totale. E il guaio era che lo ero sempre stata, solo che non mi ero mai fermata a pensarci. L'unica cosa che sapevo fare bene era vincere borse di studio e premi, ed anche quell'epoca stava per finire. Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi, o come un campione di calcio dell'università che si trova tutt'a un tratto di fronte Wall Street e al doppiopetto grigio, i suoi giorni di gloria ridotti alle dimensioni di una piccola coppa d'oro sulla mensola, con su incisa una data, come una lapide di cimitero."  

Svalutazione di sé, ma anche una profonda incertezza verso il futuro, paura di scegliere, avendo la consapevolezza che ogni scelta è cruciale e irreversibile. L'una esclude l'altra. In particolare a scontrarsi sono il sogno di una vita - affermarsi come scrittrice- e i dettami della società, che la voleva moglie e madre ideale, angelo del focolare. L'autrice riesce a descrivere molto bene questo senso di smarrimento e la paralisi che ne deriva:

"Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto.
Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso.Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l'Europa e l'Africa e il Sudamerica, un altro fico era Costantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n'erano molti altri che non riuscivo a distinguere.
E vidi me stessa seduta alla biforcazione dell'albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finchè uno dopo l'altro si spiaccicarono a terra ai miei piedi."



Alla vigilia del suo ritorno a casa Esther compie un rituale simbolico: lancia dalla finestra della sua camera d'albergo tutti i vestiti aquistati durante il suo soggiorno a New York.

Ritornata a Boston, Esther scivola lentamente nell'abisso. Non riesce più dormire, a leggere e - orrore- a scrivere: "Vedevo i giorni dell'anno come una lunga fila di scatole bianche luminose, separate l'una dall'altra dall'ombra nera del sonno. Solo che per me la lunga prospettiva di ombre che distinguevano una scatola dalla successiva si era improvvisamente spezzata, e la serie interminabile dei giorni mi si apriva davanti abbagliante come un grande viale bianco di desolazione infinita."

Cominciano le ideazioni suicide e compare il personaggio dell'odioso Dr Gordon, che conosce una sola cura per Esther: l'elettroshock. Un'esperienza atroce che la Plath rievocherà anche nella poesia "L'impiccato", allegata nell'edizione mondadori, insieme ad altre poesie tratte dalla raccolta Ariel. Eccola:


Per le radici dei capelli mi afferrò un qualche dio.
Sfrigolai nei suoi volt azzurrini come un profeta nel deserto. Le notti sparirono di scatto come palpebra di lucertola:
Un mondo di giorni bianchi e nudi in un' orbita senz' ombra.
Una noia d’avvoltoio mi affissò in questo tronco.
se lui fosse me, farebbe ciò che feci.

 Il capitolo XIII segna il punto di non ritorno. Dopo un pellegrinaggio alla tomba del padre, Esther torna a casa, prepara un biglietto con su scritto: "Vado a fare una lunga passeggiata" e ingerisce una grossa quantità di sonniferi, rintanata nello scantinato. Esther sopravvive, ma a quale prezzo...
Rimbalza da un ospedale all'altro, fino al traferimento definitivo in una clinica privata, grazie al sostegno economico di una scrittrice affermata che aveva letto la sua storia sui giornali. Non c'è ombra di speranza: "lo sapevo che dovevo essere grata a Philomena Guinea, ma non riuscivo a provare un bel niente [...] dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica." E' la prima volta che compare nel testo la metafora che dà il titolo al romanzo.

I mesi trascorsi in questa clinica privata dall'aspetto di un country club, tra pazienti con cicatrici di passate lobotomie e compagne di reparto che non ce la faranno, è un purgatorio che Esther deve attraversare prima di poter tornare al punto in cui si era "così violentemente inerrotta". La seguiamo lungo lo squallido corridoio sotterraneo che la conduce ancora una volta verso la sala adibita all'elettroshock, nella sua camera, nel salotto dove si intrattiene con le altre pazienti, fino alla soglia che la ripoterà, pur piena di incertezze e carica del suo bagaglio di dolore, alla vita.


 Anche volendo mettere tra parentesi il contenuto di questo romanzo, l'ossessione per la morte della Plath poetessa emerge anche qui attraverso l'uso del linguaggio. Metafore e similitudini si riallacciano spesso a questo campo semantico: "Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo."; oppure "il sudario grigio delle nuvole" nelle pagine finali. Sono solo due esempi, ma metafore come queste sono disseminate in tutto il romanzo. Anche per questo, oltre che per lo stretto legame con la biografia dell'autrice, non se ne può dare una lettura prettamente sociale (come a volte è stato fatto).  

Il clima mefitico dell'America maccartista di quegli anni, pieno di ipocrisie, perbenismi e tabù sicuramente opprime e schiaccia, ma non è questo il significato profondo della metafora "campana di vetro". Lo sapeva bene David Foster Wallace, anche lui suicida, che nel  suo racconto autobiografico "Il pianeta Trifallon in relazione alla Cosa Brutta"cita questa metafora della Plath per dare un'idea di cosa sia la "cosa brutta", ovvero la depressione: "Una poetessa davvero meravigliosa di nome Sylvia Plath, che purtroppo non è più in vita, diceva che è come stare sotto una campana di vetro a cui hanno risucchiato tutta l'aria, e tu non puoi respirare nemmeno un briciolo d'aria fresca (e immaginate il momento in cui i vostri movimenti sono invisibilmente impediti dal vetro e voi capite di essere sotto vetro...).
Più avanti invece descriverà come lui percepisce la "cosa brutta": una nausea che pervade ogni singolo atomo della persona che ne è afflitta, fino a prendersi l'identità stessa di quella persona.

" E' così che funziona la Cosa Brutta: è particolarmente brava ad aggredire i vostri meccanismi difensivi. Il modo per combattere o sfuggire la Cosa Brutta sta chiaramente nel pensare in modo diverso, nel ragionare e discutere con voi stessi, giusto per cambiare il vostro modo di percepire, sentire, elaborare le cose. Ma si serve la mente per farlo, vi servono le cellule cerebrali e i loro bravi atomi, le facoltà mentali e compagnia bella, vi serve il vostro io, ed è proprio quello che la Cosa Brutta ha fatto ammalare troppo perché funzioni a dovere. Ha fatto ammalare proprio quello. Vi ha fatto ammalare in modo da non permettervi di guarire. E voi cominciate a pensare a questa situazione veramente atroce e vi dite: – Mannaggia, coma cavolo è riuscita la Cosa Brutta a fare questo? – Ci pensate su, ci pensate davvero bene perché è nel vostro interesse, e poi tutt'a un tratto avete come un'intuizione...la Cosa Brutta riesce a farvi questo perché voi siete la Cosa Brutta! La Cosa Brutta siete voi. Nient'altro: nessuna infezione batteriologica né colpi di spranga o di martello in testa quando eravate piccoli, né scuse d'altro genere; voi siete la malattia. La malattia vi «definisce», specie dopo che è passato qualche tempo. Ed è allora, mi sa, che se avete lo scilinguagnolo vi rendete conto che l'acqua non ha superficie, oppure sbattete il muso contro il vetro della campana rendendovi conto di essere in trappola, oppure guardate il buco nero e vedete che ha la vostra faccia. E' in quel preciso istante che la Cosa Brutta vi divora, o meglio, che voi divorate voi stessi. Che vi uccidete. Facciamo tante storie quando chi ha una «grave depressione» si suicida; diciamo: – Per la miseria, dobbiamo fare qualcosa per impedire che si suicidino! – Errore. Perché, vedete, tutte quelle persone a quel punto si sono già uccise, nel senso che conta per davvero. Quando scolano interi armadietti di medicine, schiacciano un pisolino in garage o che so io, si sono già uccisi da un pezzo. Quando «si suicidano» si dimostrano semplicemente coerenti."

venerdì 11 marzo 2011

Elena kalis: Underwater Photography

Elena Kalis è una fotografa di origini russe, residente da 10 anni in una piccola isola delle Bahamas, insieme al marito e ai figli. Questo ha contribuito a farla specializzare in scatti subacquei che ricreano un mondo onirico e fiabesco in cui è bello perdersi. 
C'è il set, particolarmente congeniale alla sua vena visionaria, dedicato ai libri "Alice nel paese delle meraviglie" e "Attraverso lo specchio" (al quale prendono parte i due figli della Kalis), quello dedicato al mondo del circo, quelli dove prevalgono le ballerine classiche, altri incentrati sullo studio dei giochi di luci e colori che si formano nell'acqua, altri, coloratissimi, dedicati ai bambini e ai loro giochi...

Le foto sono tutte una più suggestiva dell'altra. Ne inserisco qualcuna, ma consiglio caldamente a chi si trova a passare da qui la visita al suo sito ufficiale http://underwatersite.com/

mercoledì 9 marzo 2011

La speranza di pure rivederti


di Eugenio Montale      
da Occasioni 
sezione Mottetti

La speranza di pure rivederti
m’abbandonava; 

e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini, 
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile, 
un tuo barbaglio:
  
(a Modena, tra i portici, 
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).

Montale ha commentato questa poesia sul "Corriere della sera" del 16 febbraio 1950, celandosi dietro il nome Mirco.

"Un pomeriggio d’estate Mirco si trovava a Modena e passeggiava sotto i portici. Angosciato com’era e sempre assorto nel suo "pensiero dominante", stupiva che la vita gli presentasse come dipinte o riflettesse su uno schermo tante distrazioni. Era un giorno troppo gaio per un uomo non gaio. Ed ecco apparire a Mirco un vecchio in divisa gallonata che trascinava con una catenella due riluttanti cuccioli color sciampagna, due cagniuoli che a una prima occhiata non parevano né lupetti, né bassotti, né volpini. Mirco si avvicinò al vecchio e gli chiese: "Che cani sono questi?" E il vecchio secco e orgoglioso: "Non sono cani, sono sciacalli". (Così pronunciò da buon settentrionale incolto; e scantonò poi con la sua pariglia).
Clizia amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita a vederli! Pensò Mirco. E da quel giorno non lesse il nome di Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli. Strana, persistente idea. Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua decadenza, della sua fine?
Fatti consimili si ripeterono spesso; non apparvero più sciacalli ma altri strani prodotti della boîte à surprise (scatola a sorpresa) della vita: cani barboni, scimmie, civette sul trespolo, menestrelli, ... E sempre sul vivo della piaga scendeva il lenimento di un balsamo. Una sera Mirco si trovò alcuni versi in testa, prese una matita e un biglietto del tranvai (l’unica carta che avesse nel taschino) e scrisse queste righe: "La speranza di pure rivederti – m’abbandonava; – e mi chiesi se questo che mi chiude – ogni senso di te, schermo d’immagini, – ha i segni della morte o dal passato – è in esso, ma distorto e fatto labile, – un tuo barbaglio."
S’arrestò, cancellò il punto fermo e lo sostituì con due punti perché sentiva che occorreva un esempio che fosse anche una conclusione. E terminò così: "(a Modena fra i portici, – un servo gallonato trascinava – due sciacalli al guinzaglio)". Dove la parentesi voleva isolare l’esempio e suggerire un tono di voce diverso, lo stupore di un ricordi intimo e lontano. (...)
Ho toccato un punto (un punto solo) del problema dell’oscurità o dell’apparente oscurità di certa arte d’oggi: quella che nasce da un’estrema concentrazione e da una confidenza forse eccessiva nella materia trattata."